Il desiderio tra sogno e
responsabilità
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 04 luglio
2020.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]
Premessa. L’altra settimana, mentre ero
quasi alla fine dell’articolo sul desiderio e la mente, mi sono accorto di essere
appena all’inizio delle cose che sentivo di dover comunicare e, pur consapevole
del rischio di provare la stessa sensazione dopo il tempo e lo spazio di un
secondo articolo, mi sono ripromesso di continuare se avessi avuto un riscontro
positivo dai lettori. Le domande di molti, spesso specificate come richieste di
esprimere opinioni o trattare aspetti non affrontati nel primo scritto, sono
state decisive per dar corso al mio proposito. Sono consapevole che l’argomento
meriterebbe di essere affrontato con una precisa impostazione metodologica, un
accurato approfondimento analitico e uno stile espositivo da manuale, ma temo
che l’adozione di tali misure si tradurrebbe in un ponderoso tomo, che forse,
proprio per la pretesa implicita nelle sue dimensioni, mi alienerebbe le
simpatie, l’attenzione e l’approvazione suscitate dal primo articolo.
In questo secondo scritto ho accuratamente evitato di ripetermi ma,
poiché ho sviluppato le mie riflessioni come prosecuzione delle precedenti, mi
auguro che si tenga presente Il desiderio e la mente per questa lettura
e che chi non l’abbia letto abbia la cortesia di farlo in questa circostanza.
Intanto, come previsto, anche questa volta sono riuscito a scrivere solo
una parte di quanto avevo già pronto in mente. Non mi resta che ringraziare chi
sta leggendo queste parole e augurare a tutti una buona lettura.
I sogni, i desideri e il doppio
senso. Riprendo dal primo spunto de Il desiderio e
la mente, relativo all’influenza della psicoanalisi sulla cultura popolare
del ventesimo secolo, per ricordare che l’interpretazione dei sogni come
desideri, dopo averli definiti la via regia per l’inconscio, portò
Freud in rotta di collisione con l’opinione medica corrente, in una pubblicazione
che inaugurava il nuovo secolo, rivolgendosi a un pubblico di lettori molto
più esteso di quello dei neurologi psicopatologi[1]. Il sogno
come mezzo per conoscere i desideri, soprattutto quelli inconfessabili,
sembrava essere una traccia per portare alla luce i conflitti inconsci causa di
nevrosi, e cercare di risolverli, sciogliendo i nodi di significato costituiti
dai sintomi, grazie al lavoro interpretativo condotto con lo psicoanalista, attraverso
una sorta di maieutica socratica necessaria a rendere coscienti i contenuti
inconsci.
Per la medicina dell’epoca, i sogni rappresentavano
uno scarto dell’attività di riorganizzazione cerebrale nel sonno delle tracce
registrate durante la veglia, un epifenomeno facilitato da elementi di disturbo
e condizionato dalla tendenza a collegare creativamente frammenti di percezione
non eliminati. Un materiale di risulta privo di senso. Freud invece declina
secondo il suo paradigma dello zweideutig – ossia il doppio senso
imposto dall’inconscio ai contenuti mentali – due livelli di significato per il
sogno: un contenuto manifesto, ricostruibile dal paziente stesso, e un contenuto
latente, interpretato con l’aiuto dello psicoanalista e in genere ricondotto
a un desiderio represso o recondito.
Il metodo della penetrazione culturale con saggi
di vasta diffusione, impiegato da Freud, generò effetti che andarono oltre le
sue intenzioni e aspettative. Il legame fra sogni e desideri, mezzo secolo dopo
l’intuizione freudiana, diventò un adagio popolare riflesso nei versi di una
canzone della Cenerentola di Walt Disney (1950): “I sogni son desideri di
felicità…”. Ma nella traduzione popolare era mutata la sostanza: la trama del sogno,
anziché nascondere una pulsione sessuale inconsapevole, lasciava trasparire le
aspirazioni coscienti censurate durante la veglia per responsabile adesione al
principio di realtà.
Si andava affermando per la parola sogno
il significato di “desiderio irrealizzabile” correntemente consolidato, ma nel
testo disneyano era in questione un pensiero che teneva lontane le aspirazioni
di Cenerentola tanto dal darwinismo mentale freudiano quanto dalla
rivendicazione sociale di diritti, secondo un’idea non estranea alla missione di
diffusione dell’amore cristiano dopo gli orrori della guerra, che impegnava il
celebre disegnatore americano. Il pensiero era questo: all’origine di ogni richiesta
di uscire da una condizione di vita insoddisfacente per raggiungere la felicità
c’è la ricerca di Dio. E cosa può rappresentare l’appagamento dello spirito nella
fusione con lo splendore di una luce senza fine meglio della purezza della
mente che cerca la gioia illimitata come avviene nel desiderio dei bambini?
Nella prima infanzia si ha la massima vicinanza
fra desideri e sogni: nelle produzioni oniriche piacevoli che maggiormente
impressionano i bambini, per realismo delle figure e intensità dei colori, si
possono identificare motivi o trame che sembrano desideri realizzati con una
fantasia superiore a quella che il bambino mostra durante la veglia. Ma, già a
questa età, il desiderio che non deriva da bisogni fisici, tipico della nostra
specie, deve fare i conti con la realtà. Non si tratta semplicemente della
transizione secondo il modello freudiano dal principio di piacere, che
impone la soddisfazione immediata delle richieste, al principio di realtà,
che insegna il piacere differito, ma di una complessa esperienza di
modellamento che, nei casi migliori, procede come un lavoro di scultura da un
abbozzo su un blocco informe al preciso delinearsi dei tratti di una
personalità, e negli altri casi va avanti a tratti e sbalzi, per traumi e
guarigioni.
Dar forma ai desideri: la storia
della coscienza. Durante l’età evolutiva, la
mente tende spontaneamente a modellarsi e ad assumere per empatia lo stile
delle persone vicine, così come a rifiutare i modi e le forme di coloro con i
quali non si sviluppa identificazione, come sa ogni genitore esperto che sollecita
strategicamente l’identificazione con gli obbedienti per trasmettere ai
propri figli le regole del vivere civile. Non proporre modelli ai bambini
equivale ad accettare che i modelli siano casuali, e questo in alcune realtà
può rivelarsi una colpevole negligenza.
Lasciare per ore i bambini davanti al televisore
a fare indigestione della pubblicità che accompagna le trasmissioni per l’infanzia,
vuol dire istruirli secondo i principi della “religione dei consumi”, che incanalano
gli affetti espansivi tendenti nel sogno alla gioia senza fine, verso il desiderio
di un oggetto commerciale che promette il piacere effimero del possesso della
novità.
Suscitare desideri nell’infanzia per sfruttarli a
fini di profitto è sempre stata una grande palestra per i pubblicitari, che
hanno avuto a lungo per alleati i portatori di un pensiero psicologico
originato da vulgate malintese di ipotesi eziopatogenetiche di matrice
psicodinamica, che ammonivano i genitori sui presunti rischi derivanti dal non
esaudire le richieste dei piccoli[2]. Per un
certo periodo si è diffusa la tendenza, propagata anche dagli ospiti di seguiti
salotti televisivi, a ritenere gli effetti negativi della mancata soddisfazione
di desideri infantili sul comportamento dell’adulto come diretti, inevitabili e
condizionanti, quasi che non esistesse la mediazione della vita cosciente, con
la sua capacità di determinare un’evoluzione del complesso delle funzioni
psichiche. Lasciavano intendere che non soddisfare una richiesta arbitraria
potesse causare una ferita inconscia non emendabile, a dispetto della provata
plasticità dinamica del cervello e della mente.
Anche se privo di qualsiasi valore scientifico e sempre
rifiutato dalla psichiatria, questo particolare determinismo dell’inconscio
frustrato fu impiegato da commentatori televisivi per spiegare la
corruzione imperante nel nostro ceto politico all’epoca dell’inchiesta
giudiziaria “Mani Pulite”, provocando la sferzante ironia del noto osservatore
di costume Beniamino Placido[3].
Ciò che può segnare i bambini è la qualità
negativa di un’esperienza protratta, un vissuto di sofferenza senza conforto,
non la mancata soddisfazione di un capriccio. In ogni caso, guidare la
comprensione della realtà e, con questa, delle ragioni degli adulti, aiuta lo
sviluppo psichico.
I bambini hanno già alla nascita un nucleo di facoltà
percettive e cognitive che la pedagogia classica presumeva si acquisissero solo
più tardi e, quando negli anni Novanta sono stati sperimentalmente provati gli
errori di Piaget, sono emerse nella prima infanzia precoci abilità di inferenza
deduttiva, intelligenza sociale e senso morale.
Così come da piccolissimo acquisisce conoscenza
del sé corporeo, guardandosi mentre con una manina si afferra un piede e lo tocca
sentendosi toccare allo stesso tempo[4], da più
grandicello il bambino, nell’interazione con l’adulto, impara a monitorarsi per
rendere conto all’altro di sé stesso.
Sa che sarà giudicato “buono o cattivo” a seconda
di come si comporterà e che potrà essere punito o premiato; soprattutto, quando
riflette su ciò che fa, compie un esercizio astratto di consapevolezza di sé,
mediato dal modo in cui lo vedono i suoi genitori[5]. Aggiunge
un nuovo registro a quella dicotomia dello stato interiore, che appare totalizzante
nel primo anno di vita, quando si esprime con i due estremi del sonno pacioso e
del pianto disperato e sembra dire: “Sto bene: tutto va bene!” o “Sto male:
tutto va male!”.
In altri termini, poco per volta il bambino
comincia a imparare che il “come sono” non coincide con il “come mi sento”,
ossia con lo stato di appagamento dei propri bisogni, ma con il grado di
soddisfazione del desiderio dei genitori. È proprio l’entrata in gioco del
desiderio dell’altro, il passo psicologico decisivo per avviare la formazione
di quel tratto della consapevolezza sociale di sé su cui si fonda gran parte
della vita di relazione in età adulta. Ma, in termini morali, soddisfare la
richiesta genitoriale realizza un passo ancora più importante, perché
costituisce un adempimento che fa entrare la dimensione del dovere
nella formazione della coscienza.
I genitori che impartiscono un’educazione
religiosa precoce – e non sono pochi, per la verità – aggiungono il riferimento
simbolico della responsabilità verso Dio, che getta il seme del valore assoluto
dell’essere buono, allontanando la tentazione di vincolare il
comportamento desiderato alla reciprocità di uno scambio.
È interessante il modo in cui i bambini
apprendono le limitazioni di tempo e di spazio del desiderio. Ad esempio: “Non
si può andare al parco a quest’ora: è troppo tardi” e “Non possiamo essere allo
stesso tempo al mare e al parco giochi: sono due luoghi diversi”.
Ma, poi viene il momento che spesso coglie il
bambino di sorpresa: “Cosa vuoi, il dolce o il gelato?” Probabilmente il bambino
si chiede perché debba scegliere: li ha visti, li vuole entrambi. Il bambino deve
assumersi la responsabilità della scelta perché mangiarli entrambi gli farebbe
male, e lui deve saperlo e comportarsi come un adulto. Allora si introduce un
esercizio di temperanza e ragione, allo stesso tempo: avere uno solo dei due
piaceri, differendo l’altro al giorno dopo, e mostrare di aver capito che lo
smisurato entusiasmo che accompagna il desiderio deve trovare un limite nella
misura indicata dagli adulti.
Questo limite rispettoso della misura
introduce un aspetto che meriterebbe uno specifico approfondimento, ossia come
l’evoluzione della coscienza sia, in parte, ontogenesi della ragione.
Concludo questo paragrafo osservando che il limite
principale del desiderio, che accomuna un’educazione laica alla formazione di
una coscienza morale di impronta religiosa, è dato dalla responsabilità.
Appunti di neuroscienza del
desiderio. I nostri desideri, così come siamo abituati a
concepirli, attengono ai contenuti della mente, per i quali non abbiamo ancora
modo di tracciare precisi correlati, nonostante il grande impegno sperimentale nella
ricerca di un codice neurale per i processi cognitivi, ossia la speranza
di trovare una sorta di linguaggio macchina dal quale dedurre come
varianti le rappresentazioni individuali del pensiero. Bisogna accontentarsi di
correlati costituiti da quadri di neuroimmagine funzionale di stati mentali
associati al desiderio. In altre parole, adoperando metodiche di neuroimaging
funzionale tipo fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging) è possibile
individuare nel cervello attivo di volontari sottoposti ad osservazione delle reti
neuroniche specifiche per alcuni stati e comuni a diverse persone.
Anche se è possibile individuare reti che
includono una specifica attivazione ipotalamica per la fame e la sete,
e distinguerle da reti caratterizzate da importanti connessioni al nucleo
accumbens e all’insula, come nel desiderio di nicotina, non è ancora
possibile definire in generale il profilo di un desiderio legato a un bisogno e
distinguerlo da un desiderio voluttuario[6].
Anche se l’inizio della ricerca
elettrofisiologica su desiderio e piacere risale ormai a sessant’anni
fa, non posso esimermi dal ricordare i primi esperimenti che non hanno solo
portato alla scoperta del “sistema a ricompensa cerebrale”, ma hanno anche introdotto
prima in neurofisiologia e poi in psicologia e nella comunicazione di massa il
concetto di motivazione, oggi generosamente impiegato nelle cronache
sportive, in cui si dice che le motivazioni sono importanti per la
vittoria di una squadra e che i grandi allenatori sono sempre grandi motivatori.
Prima di questi studi in italiano motivazione voleva dire enunciazione delle
ragioni, come quelle che espone il giudice nella motivazione di una sentenza, o
giustificazione di un comportamento, come nella motivazione di un’assenza dalla
scuola o dal lavoro. Motivare significava addurre le ragioni o le cause
di qualcosa.
Olds e colleghi misero in condizione ratti e
scimmie di stimolarsi da soli il cervello, premendo una leva collegata a elettrodi
posti in corrispondenza di aree circoscritte e, in particolare, una sottile
striscia di tessuto che andava dai nuclei amigdaloidei al tegmento del
mesencefalo, passando per l’ipotalamo: una zona ritenuta mediatrice del piacere.
Gli animali erano liberi di assumere alimenti e bevande a piacimento e muoversi
nello spazio circostante, ma trascorrevano la maggior parte del tempo a
stimolarsi, trascurando i bisogni primari. I ratti arrivavano a premere la leva
fino a 12000 volte in un’ora; le scimmie, con un encefalo molto simile al
nostro, raggiungevano le 17000. Furono poi individuati punti in cui la
stimolazione veniva evitata: parte laterale dell’ipotalamo posteriore,
mesencefalo dorsale e corteccia entorinale[7].
Gli esperimenti furono poi condotti su volontari
che, come gli animali, tendevano ad una impressionante auto-stimolazione
compulsiva, anche se leggermente più controllata di quella animale, e riferivano
di provare sensazioni di piacere, sollievo, quiete e tranquillità. Ponendo gli
elettrodi nelle sedi che inducevano gli animali a evitare di premere la leva,
anche i volontari rappresentanti del nostro genere si guardavano bene dal premere
il tasto stimolatore; indotti a farlo dai ricercatori, riferivano di provare un
vago senso di paura o, in qualche caso, di terrore.
I due sistemi neuronici mediatori dei due stati
funzionali opposti furono chiamati “sistema a ricompensa” e “sistema a punizione”,
e lo stato prodotto dall’attivazione del primo fu definito motivazione.
Con esperimenti su animali, che personalmente non approvo, si stabilì che gatti
affamati non erano disposti ad attraversare grate percorse da una corrente di
70 micro-ampere per andare a prendere il cibo, ma il desiderio di andarsi a
stimolare era così potente che potevano sfidare correnti di oltre 300
micro-ampere; anche se lo shock elettrico sembrava a volte tramortirli,
appena si riprendevano andavano nuovamente in cerca della leva per stimolarsi.
Non si può non pensare a ciò che sono disposti a
fare i tossicodipendenti pur di ottenere le sostanze che stimolano quei sistemi
di neuroni, ma anche le persone sex addicted[8], come sono
state Michel Douglas, Britney Spears e Hugh Grant, tra i più noti della lunga
schiera. È evidente che l’eliminazione della categoria morale di giudizio di
questi stati, ossia il vizio[9], non ha
cancellato la realtà del problema che, secondo lo stile contemporaneo è stato medicalizzato.
Tuttavia, comunque lo si voglia intendere, la soluzione rimane la stessa:
astinenza e recupero di distanza consapevole e autocritica.
La ricerca ha poi dimostrato che l’attivazione
del sistema a ricompensa può essere un potente stimolo per l’apprendimento.
Attualmente si studiano gli stati
motivazionali distinguendo quelli, come fame, sete e richiesta di
equilibrio termico, al servizio di bisogni di regolazione da quelli,
come l’eccitazione sessuale, indotta da imperativi biologici della specie. In
tal modo definendo un paradigma che legittima la distinzione fra bisogni e
desideri, da me adottata nel primo scritto.
I bisogni di regolazione inducono l’attività di richiesta
o ricerca attraverso segnali molecolari dello stato di carenza o deficit, mentre
bisogni non regolatori sembrano originare da segnali di errore prodotti dal
sistema nervoso centrale: una lunga astinenza sessuale genera un segnale d’errore
che promuove il comportamento di ricerca del partner[10]. Allo
stesso modo, il confinamento protratto in uno spazio circoscritto genera il comportamento
esplorativo.
Negli anni recenti sono state identificate le
strutture principali del sistema a ricompensa. L’area tegmentale ventrale
(VTA), con le sue popolazioni di neuroni dopaminergici, ha un ruolo chiave nella
rete responsabile dello stato interno positivo che corrisponde all’esperienza
del piacere e della gratificazione, e interviene nella genesi
della motivazione. Gli stati motivazionali influenzano il comportamento
diretto a uno scopo, che dipende dalle connessioni della VTA con il nucleo
accumbens, altra struttura fondamentale per il desiderio.
Tutte le sostanze psicotrope che generano
dipendenza (neuro-deprimenti come l’eroina, stimolanti psicomotori come la cocaina,
ecc.) accrescono la trasmissione in questa connessione, spesso superando i
segnali fisiologici delle vie collegate, al punto da simulare e sostituire gli
stimoli naturali e gli stati motivazionali omeostatici, come fame e sete. Gli
effetti delle sostanze d’abuso sono stati studiati come apprendimento
alterato dei neuroni dopaminergici della VTA[11].
Per maggiori dettagli sarebbe necessario scendere
al livello cellulare e molecolare, ma non si aggiungerebbe molto al concetto
generale di una definita base neurobiologica per i bisogni e di poche e vaghe
indicazioni funzionali per gli altri desideri.
Dunque, neuroscienza del desiderio o vincoli
biologici per riflessioni elementari ma rigorose?
Per il momento credo che ci si debba accontentare
dei secondi, anche perché il mutamento del quadro delle conoscenze di base ha
rallentato il progresso, mettendo in discussione alcuni criteri di fondo sui
quali si stava costruendo il mosaico dei gruppi neuronici necessari e
sufficienti all’espressione di uno specifico stato di richiesta. Mi spiego
meglio con un esempio: in passato l’amigdala era considerata mediatrice della paura
e di reazioni emozionali simili, sicché se in una rete si rilevava l’attività
dell’amigdala, si deduceva che in quello stato mentale c’era una componente di
paura; oggi che si conosce una lista di ruoli dell’amigdala che non entra in un
foglio e che va dalla rilevazione di importanza di uno stimolo ambientale alla
classificazione cognitiva di immagini di animali, non si sa quale significato
si possa attribuire alla sua partecipazione a un circuito attivo. Naturalmente
questa considerazione vale per molte strutture del sistema nervoso centrale.
In alcuni casi, sembra che la scelta precisa e
caratterizzata di un oggetto del desiderio possa avere una rilevante
importanza, in quanto la conoscenza dei caratteri oggettivi dell’attrattore,
insieme col valore evocativo esercitato sulla persona attratta, possono
costituire un riferimento certo per distinguere fra quadri di attività
cerebrale e orientarsi per attribuire un nesso di correlazione. Ma bisogna
attendere i risultati di studi condotti con metodi e procedure che tengano
conto delle acquisizioni più recenti e siano realizzati su campioni
significativi.
In ogni caso, questo zoom all’interno del
cervello alla ricerca dell’origine del desiderio credo sia servito a fornire
qualche informazione sulla base neurobiologica del desiderio compulsivo per il
piacere: se un eccesso di attivazione di VTA e accumbens o un’alterazione
indotta da una droga staccano il collegamento che consente il rinforzo
col piacere degli eventi che naturalmente lo producono, generando un corto-circuito
per cui ciò che ha causato piacere genera richiesta di sé stesso a ciclo
continuo[12], si
determina uno stato cerebrale e mentale caratterizzato dalla priorità della
ricerca del piacere, con riduzione di presenza a sé stesso e di efficienza
sociale. Questo è quanto accade in una persona in stato di addiction o,
come si diceva in termini morali, schiava del vizio.
Come dicevo, spero che lo sforzo compiuto dal
lettore non formato alla conoscenza neurofisiologica per seguire i contenuti di
questo paragrafo possa essergli utile nel prosieguo della lettura, perché ciò che
oggi divide i pensatori non è l’opinione generale sul desiderare, ma quella specifica
sul volere il piacere.
Cercare un senso per il desiderio per non sottometterlo alla ragione? Opinioni
a confronto. Chi è familiare all’esercizio
della ricerca di ragioni psicologiche profonde e persino biologiche del
pensiero dei filosofi, non si stupirà di quanto penso circa l’appassionato
conferimento di valore al piacere da parte di numerosi pensatori contemporanei,
che si esprimono in una gamma che va dalla riscoperta di una radice naturale nell’atteggiamento
del mondo classico, alla dichiarata adesione al buddismo. Ritengo che si possa plausibilmente
invocare l’intervento di una bias che accomuna tutti gli esseri umani: tendere
a considerare positivo il piacere.
Questa
tendenza psicologica di fondo deve aver aguzzato l’ingegno di molti, fin dall’antichità,
per far rientrare il desiderio del piacere nella ragione di un sistema
di gestione di sé stessi socialmente accettato, sia nella prassi di una
semplice igienistica sia nei precetti di una vera filosofia[13].
Salvatore Natoli, filosofo neo-aristotelico di
profonda cultura e acuta intelligenza, la cui opera è stata tra i riferimenti
filosofici del nostro “Seminario Permanente sull’Arte del Vivere”, dopo una lunga
tradizione di saggi contraddistinti da un equilibrio nei giudizi sulle
concezioni morali greca e giudaico-cristiana, nel suo L’edificazione di sé –
istruzioni sulla vita interiore sembra essere stato tradito dalla tendenza
psicologica menzionata perché, rotti gli indugi, si schiera apertamente contro l’astensione
ebraico-cristiana dai piaceri voluttuari e trasgressivi.
Dopo aver citato l’esercizio epicureo di
riduzione progressiva dei piaceri per stabilire la soglia del voluttuario,
anche da me ricordato nel precedente scritto, così si esprime: “Purtroppo una secolare
pedagogia della rinuncia ha trasformato quel che era un espediente tecnico –
gli antichi dicevano un esercizio – in un valore, fino al punto di rendere
equivoca l’idea stessa di «dominio delle passioni». Ciò ha spinto a
identificare le passioni con il male, e di qui la logica conseguenza d’estirparle”[14].
In questo brano è in gioco tutta la differenza
tra visione pagana e cristiana e, come vedremo più avanti, all’origine c’è una
distinzione cardinale tra piacere e gioia.
L’etica, ebraica prima e cristiana poi, del
sacrificio e della mortificazione non nasce certo per una cattiva interpretazione
pedagogica delle pratiche epicuree: Mosè, padre delle tre fedi monoteiste[15], circa
mille anni prima di Epicuro[16] digiuna
quaranta giorni in attesa dell’incontro con l’intelligenza morale divina dalla
quale riceverà il decalogo, e questa pratica di purificazione è più che mai viva
tredici secoli dopo, quando Gesù digiuna per quaranta giorni nel deserto, e così
avanti fino al digiuno delle vigilie e all’esperienza, prima spirituale e poi
pedagogica, dell’uso della privazione del piacere per accrescere la lucidità di
coscienza e la forza dell’Io. Nella coscienza, infatti, avviene l’incontro
spirituale del credente con Dio e la forza espressa nella consapevole e determinata
volontà di compiere il bene è necessaria per rimanere nella grazia.
La radice giudaico-cristiana è dunque molto più
antica, oltre che ontologicamente differente, e non è appropriato tacciare l’insegnamento
delle sue dottrine come “secolare pedagogia della rinuncia”, a meno che non si
voglia sposare con le tesi anticristiane di Nietzsche anche la sua tecnica
retorica. Un primo artificio consiste nell’impiego della categoria unica delle passioni,
ben sapendo che la passione per uno sport è cosa ben diversa dalla compulsione
alcoolica e la passione per l’arte non comparabile alla ricerca spasmodica di piacere
sessuale; ma regge, perché ogni affetto smodato per il cristiano è un’idolatria.
Il secondo artificio consiste nella premessa entimematica che il cristianesimo
sia negativo perché svilisce la dignità umana imponendo umiltà, sottomissione,
penitenza e astinenza, e perché ne riduce la forza soffocandolo con sensi di
colpa e di indegnità rispetto al modello del martire.
Il ritorno dei contemporanei a Nietzsche
per giustificare un’idolatria del desiderio sostenuto dal profitto? Il
filosofo di Röken[17] su queste
questioni non va leggero, ma ciò che sorprende è l’approvazione di Natoli che afferma:
“Nietzsche aveva ragioni da vendere quando scriveva: «voi oscurantisti e bisce
filosofiche parlate per accusare il carattere di tutto il mondo, del terribile
carattere delle passioni umane. Come se dappertutto dove ci sono passioni
ci fosse stata anche terribilità! Come se dovesse esserci sempre nel mondo questa
specie di terribilità![18] ... »”[19].
Questo si può comprendere se si assume il punto
di vista dell’ateo: cosa mai c’è di terribile nel vivere assecondando e alimentando
i desideri? Per il credente c’è di terribile la perdita dell’anima: finire,
come insegna Gesù Cristo, nella Geenna, ossia in una discarica di rifiuti dove
tutto si inceneriva col fuoco sempre acceso.
Ma Natoli incorre in un vero e proprio errore quando
definisce bisogni primari “fame e sesso”[20], perché
il desiderio erotico non è affatto espressione di un bisogno primario.
Facciamo un po’ di chiarezza al riguardo. Si definiscono
primari i bisogni che se non soddisfatti portano a morte un individuo di
una specie, come alimentarsi, assumere fluidi e conservare la temperatura fisiologica
dell’organismo; bisogni che si manifestano attraverso fame, sete e ricerca di
protezione dalle temperature estreme. È invece secondario il bisogno che
non soddisfatto da tutti i membri di una specie porta all’estinzione della specie
stessa, come il bisogno di accoppiamento che si manifesta attraverso il
desiderio sessuale. La soddisfazione dei bisogni primari è propriamente questione
di vita o di morte; la mancata soddisfazione di un bisogno secondario non
arreca danno all’individuo in quanto tale.
Rappresentare il desiderio erotico come bisogno
primario, ossia questione di vita o di morte, oltre ad essere ridicolo rivela
la bias psicologica prima menzionata.
In effetti, l’esercizio epicureo tendeva proprio
a stabilire empiricamente il valore del desiderio, distinguendo la necessità
dalla voluttà.
Ecco come la pensava Epicuro: “Dei desideri
alcuni sono naturali e necessari, altri naturali ma non necessari, altri poi né
naturali né necessari, ma nascono da vana opinione”[21]. Massima
illuminante, completata dalla successiva che illustra la sua distinzione netta
fra i desideri: “Fra quei desideri che se non vengono soddisfatti non
comportano dolore corporeo quelli in cui intensa è la passione provengono da
vuote opinioni, e non sono difficili a dissiparsi per la loro natura, ma per le
stolte credenze degli uomini”[22]. La
distinzione è chiara: fame e sete se non soddisfatte, per acidosi, chetosi e
meccanismi fisiologici, causano contrazioni avvertite come dolori; non si può
dire altrettanto del desiderio erotico.
Starò ancora al gioco di Nietzsche imperniato
sulla caricatura di figure comportamentali, per seguire il filo di Natoli, ma sento
l’obbligo di notare, sia pur di passaggio, che il mutamento portato dal
cristianesimo è di sostanza: non si seguono gli scritti di un filosofo, ma si
imita la vita di un uomo considerato incarnazione della divinità[23], che fa
ciò che dice e dice ciò che fa, che non cerca la gloria personale, predica l’amore,
converte, guarisce ciechi, paralitici e lebbrosi, salva l’adultera dalla
lapidazione, esaudisce chi chiede con fede, promette il Regno dei Cieli e si offre
docile al martirio. Nessuno mai era stato così. Il suo modello cambia la
concezione della virtù.
Non è più virtuoso l’areté, ossia colui
che con arte, ingegno e tecnica esercitata eccelle in un’attività, come Ulisse,
che si fa divo sul palcoscenico del mondo come ancora oggi accade nel neopaganesimo
de facto della maggioranza, ma nei secoli cristiani è virtuoso Francesco,
che dona tutto ai poveri e si dona ai fratelli, come sono virtuose le vergini
consacrate e le madri operose, tacite e perseveranti nel servizio del prossimo.
La virtù non è abilità esibita al mondo per ottenerne gloria e profitto, è oblazione
di sé rappresentata nel segreto a Dio. Secondo uno stile che richiama l’affascinate
figura ebraica del Nistar, ossia il “giusto nascosto”.
Riprendendo Salvatore Natoli: “Per stare all’Occidente,
i secoli cristiani – dal medioevo alla tarda modernità – hanno contribuito a
concepire la virtù in termini di rinuncia. E cos’altro erano – o comunque hanno
finito per essere – l’umiltà, l’astinenza sessuale, l’obbedienza «perinde ac
cadaver» (come un cadavere) e perfino il perdono, se non pratiche
rinunciatarie?”[24].
Atteso che citare il perinde ac cadaver
rientra nella tecnica denigratoria di accostare il cristiano a quanto vi sia di
più negativo, estrapolando dal suo contesto un’espressione volutamente
iperbolica, come quando un’insegnante dice: “Muti!” ai suoi allievi
chiacchieroni, si comprende che umiltà e obbedienza rientrano in quella sottomissione
a Dio – in arabo Islam – che la Legge di Mosé contempla al primo
comandamento: è un riconoscimento dell’onnipotenza divina, non una rinuncia. Ma
perché per il cristiano l’astinenza sessuale e il perdono non sono pratiche
rinunciatarie?
Se si ritiene che tutti gli esseri umani siano
costantemente e indiscriminatamente alla ricerca di accoppiamento sessuale e desiderosi
di vendicarsi ogni volta che ricevono il male, allora non appare illogico
ritenere che castità e misericordia possano solo derivare dall’abbandono di un
proposito.
Ma la questione è che il cristiano non è un pagano
edonista e rancoroso costretto ad astinenza e perdono sotto minaccia; il
cristiano è qualcuno che ha liberamente scelto la sequela di Cristo e in quel
cammino, passo dopo passo, ha sviluppato una sensibilità nuova, profondamente
ispirata alla sua coscienza morale.
Essere contro il razzismo e ogni sorta di
discriminazione e contro ogni tipo di violenza non significa, in negativo,
rinunciare a discriminare e picchiare, ma in positivo sentire la fratellanza, l’amore
per il prossimo. Se si riflette su questo punto, ci si rende conto che l’etichetta
di “pratica rinunciataria” si potrebbe applicare a quasi tutte le azioni etiche.
Non si rinuncia, perché si desidera altro. Non si rinuncia: semplicemente si
sceglie!
Tutta la vita cristiana è fatta di scelte, spesso
necessariamente coraggiose, mentre l’unica rinuncia è riservata al peccato e a
satana che lo rappresenta, come si ripete nel rinnovo rituale delle promesse
battesimali.
E, seppure le scelte si vogliono definire rinunce,
il cristiano può dire al filosofo di Röken: la rinuncia non è un modo sbagliato
per soddisfare l’uomo, ma il modo perfetto per compiacere Dio.
Ma, prima di ritornare alle tematiche del “programma”
di Nietzsche, vorrei ricordare per ciò che concerne la morale sessuale cristiana,
che l’unione carnale dei coniugi è benedetta nel sacramento del matrimonio, da
Sant’Agostino considerato superiore all’Ordine sacerdotale, perché se in quest’ultimo
si consacra l’anima a Dio, nel primo si consacrano sia l’anima che il corpo
degli sposi. È interessante notare che questa circoscrizione dei rapporti
sessuali all’ambito matrimoniale è compatibile con le pratiche di continenza
finalizzate alla serenità dell’animo, sperimentate presso varie scuole
filosofiche di epoca classica.
Per Nietzsche, che riduce il cristianesimo a una parodia
delle sue forme e il pensiero dei Greci a sostegno strumentale delle proprie
tesi, è implosivo tutto ciò che è dono, oblazione, rispetto dell’altro e responsabilità
morale. Ecco Natoli: “Non sono convinto che le cose stiano proprio così, ma non
me la sento di dar torto a Nietzsche, anche se la sua demolizione del
cristianesimo si dirige spesso contro un falso bersaglio. Infatti, non si può
negare che i secoli cristiani siano esistiti e bisogna prenderli per
intero, per quel che sono effettivamente stati nelle loro luci e nelle loro
ombre. Ora, non v’è dubbio – senza nulla togliere alla loro grandezza – che hanno
introdotto pratiche e che hanno patologizzato le condotte e reso equivoche le
virtù”[25].
Non è dato sapere perché “patologizzato le
condotte”, ossia cosa Natoli veda di patologico e in base a quale criterio
esprima un giudizio di malattia del comportamento per le pratiche
spirituali cristiane e cosa intenda per “reso equivoche le virtù”, che sembrano
soltanto, come si diceva prima, coerentemente individuate secondo una
concezione diversa, quella della religione dell’amore. Naturalmente, le due
espressioni critiche di Natoli diventano chiare se si ha presente il punto di
vista di Nietzsche.
Se si ritiene che la fisiologia sia rappresentata
dalla narcisistica “volontà di potenza” esercitata dall’uomo che si sente
superiore, e si esibisce sulla scena del mondo per scalare il successo, allora
le condotte oblative sono patologiche. La “stoltezza della croce”, dice San
Paolo per indicare il modo in cui è visto il supremo sacrificio redentivo da chi
ragiona secondo l’istinto animale del proprio vantaggio personale quale massima
priorità; ossia “coloro che hanno per proprio dio il ventre”, secondo l’espressione
di Gesù.
D’altra parte, la visione nicciana fu applicata
da Mandeville nel celebre saggio Vizi privati, pubbliche virtù, in cui i
vizi acquistano una connotazione positiva nell’ottica della potenza e dell’affermazione
di sé, mentre alcune virtù cristiane sono presentate piuttosto come debolezze.
Lo stesso Natoli richiama alla mente il giudizio negativo di Spinoza su
compassione e pentimento, così come l’apologia dell’orgoglio fatta dall’empirista
Hume, che denigra l’umiltà.
Nietzsche è stato un grande studioso dei Greci, ma
personalmente non credo, dalla lettura di tutte le sue opere che ho fatto in
gioventù, che sia mai stato un autentico interprete dello spirito e degli
aspetti caratterizzanti la cultura ellenica. A parte l’ovvia ed evidente
mancanza della misura, della metis platonica e dell’equilibrio
etico-estetico apollineo, nemmeno nell’accostamento allo spirito rapsodico più
dionisiaco ed estremo vedo somiglianza: manca il tratto antropologico del rispetto
dell’altro e del vincolo civile di responsabilità[26].
Un principio di vita, che si incontra in filosofi
e letterati greci, sintetizza in una sola parola il rapporto fra il soggetto e
il desiderio: enkrateia[27], la signoria
di sé. L’enkrateia si costituisce come un nodo di senso fra l’intimità
del proprio desiderare e la rete sociale di affetti e relazioni mediate dal
ruolo in cui si è significati, indicando il limite del proprio desiderio in
quello degli altri. Nella sintesi neoplatonica dell’Accademia Fiorentina di
Benedetto Varchi e Michelangelo Buonarroti, l’enkrateia si fonde con la temperanza
cristiana, realizzando quello stile di affabile, elegante, sensibile e
raffinato rispetto dell’altro imitato in tutta Europa e rappresentato nell’uso
della parola italiana signore.
Ma leggiamo cosa dice invece Nietzsche parlando
dell’uomo e descrivendo sé stesso: “È un cumulo di passioni che attraverso i
sensi e la mente dilagano nel mondo: un groviglio di serpenti che raramente
sono stanchi di lottare: e in questo caso guardano al mondo per cercare la loro
preda”[28]. Nietzsche
non era un signore.
Ponendosi come Anticristo, il filosofo di Röken
getta discredito sulla vita cristiana rappresentandola come passiva, statica,
rinunciataria, e la contrappone al suo ideale di intensa, dinamica e spesso
frenetica espansione di sé, fondato sull’assecondare i desideri e gestirne il
flusso travolgente a proprio vantaggio[29]. L’enkrateia
agli intemperanti dell’antica Grecia doveva fare lo stesso effetto del
cristianesimo, perché Callicle, nel Gorgia di Platone, ragiona
esattamente come Nietzsche, e come lui si scaglia contro la signoria di sé. Solo
che Callicle si trova di fronte Socrate. Voglio qui ricordare il dialogo fra i
due, perché mi sembra che la risposta socratica sia la migliore obiezione alle
tesi nicciane.
Socrate sostiene che il governo degli Stati
dovrebbe essere affidato ai migliori, ossia quelli che hanno governo di sé, e
Callicle chiede provocatoriamente cosa intenda con «avere governo di sé». Socrate
risponde: “Nulla di complicato! Ma proprio quello che intende la maggioranza,
essere cioè assennato, padrone di sé, capace di dominare le proprie passioni e
i propri desideri”[30]. Callicle
lo deride e rimprovera: “Ingenuo che sei! Scemi sono quelli che tu dici saggi!”[31]. E poi: “Ma
sì, bello e giusto per natura è ciò che ora ti dirò con tutta franchezza: chi
vuole vivere come si deve, ha da sciogliere, non da frenare, la briglia ai
propri desideri per quanto grandi siano, e per quanto grandi siano, deve essere
capace di assecondarli con coraggio e intelligenza e dare sempre soddisfazione
alle proprie passioni”[32]. Callicle
spiega che questo modo di vivere richiede capacità e coraggio, e la maggior
parte delle persone, non possedendo queste qualità, biasima coloro che sono
capaci di una vita piena. Il piacere della vita consiste proprio – egli sostiene
– in un continuo grande fluire: senza movimento non vi è vita, ma morte, e l’uomo
si tramuta in pietra.
E Socrate: Ma se molto fluisce, non è facile che
molto si perda?” E aggiunge: “Tu mi descrivi la vita di un caradrio…”[33]. I Greci
avevano ben presente il caradrio, un tipo di uccello che, ogni volta che assume
anche una piccola briciola come alimento, ha un riflesso di evacuazione; la reazione
è così immediata da dare l’impressione che il cibo lo attraversi senza
fermarsi. Con ironia, Socrate suggerisce il primato della qualità sulla
quantità; qualità che non è data dal soddisfare i desideri seguendo le passioni.
Ma, a parte questo gioco di identificazione fra
Callicle e Nietzsche suggerito in un passato non lontanissimo dallo stesso
Salvatore Natoli[34], non vi è
svista più grande del considerare la vita cristiana come statica, ferma,
inibita, priva di dinamismo, slancio e intensità.
Sant’Agostino è accostato a Plotino perché per
entrambi “l’opposizione maggiore è fra il bene concepito come essere e il male
concepito come assenza”[35]. Il
cristianesimo, che ha introdotto il peccato di omissione ed è stato diffuso,
dopo i tre anni di itinerari di predicazione nelle terre mediorientali compiuti
da Gesù Cristo, dai viaggi di apostoli[36] e
discepoli, dai quali sono originati i missionari ancora inviati in tutto il
mondo, contempla un elenco interminabile di santi che hanno vissuto con un’intensità
a volte vertiginosa la propria missione di carità. Fra gli esempi più citati da
atei e agnostici, dopo le scoperte d’archivio compiute da Foucault per la sua Storia
della follia nell’età classica, c’è quello di San Luigi.
Il cristiano ha l’obbligo di spendere i propri
talenti e farli fruttare: la cultura cristiana ha trasmesso al mondo questa
concezione, introducendo in tutte le lingue il nome di un’antica moneta nel
significato simbolico di dote naturale.
L’oggetto del desiderio: una
differenza fra radice cristiana e radice pagana. Al Seminario
sull’Arte del Vivere abbiamo studiato, secondo paradigmi e prospettive diverse,
l’oggetto del desiderio, indagando la possibilità che la sua natura
influenzi il desiderare e lo stesso soggetto del desiderio; siamo poi
approdati ad un insieme di riflessioni sulla necessità di stabilire e mantenere
una giusta distanza dall’oggetto desiderato. Non mi soffermerò su questo
studio, per rimanere nell’attualità che vede contrapposte, nella nostra realtà
culturale e quotidiana, le radici antropologiche cristiana e pagana dei due
atteggiamenti psicologici prevalenti nei confronti del desiderio.
Nell’ottica del credente, la temperanza e la
continenza non sono tanto espressioni comportamentali di rinuncia,
quanto conseguenze morali di una scelta, dalla quale dipende l’orientamento
dell’intera persona. Il modellamento della fede non elimina la reattività
biologica, ma se nella coscienza l’oggetto principale del desiderio è l’assoluto
del divino, si comprende che fino a quando non si determinano stati di
riduzione della consapevolezza o di compromesso morale, la priorità non può
essere data alle segnalazioni sensoriali.
Non sono secondari gli aspetti culturali che
rendono cristiani e pagani diversi nell’approccio a ciò che attrae, affama, o
lusinga.
All’origine c’è una distinzione cardinale tra piacere
e gioia, associati e confusi fin dalla notte dei tempi in tante forme
rituali[37], ma
chiaramente distinti nella tradizione cristiana: il piacere non è un
fine, ma un semplice effetto di atti quotidiani, come il piacere del cibo e di
una bevanda a pranzo, il piacere nel rapporto a fine procreativo con il
coniuge, per citare i piaceri materiali, e poi il piacere della conoscenza, dello
scambio affettivo con le persone care, della condivisione di esperienze di vita
e, soprattutto, del fare il bene in ogni forma, anche a chi ci fa del male.
L’uso dei piaceri non è oggetto di uno studio
particolare, come per i filosofi greci, semplicemente perché non è nelle priorità,
e se si prova a vivere da cristiani, evitando le omissioni perché il male è già
nell’assenza di bene, si comprende che lo stato complessivo della mente,
quello che amo definire quadro funzionale, non è il più adatto al
ripiego egotico su sé stessi per la ricerca del piacere, soprattutto di quello
fisico.
Una differenza non trascurabile fra il provare
piacere quale conseguenza delle comuni esperienze quotidiane e cercare lo stato
psichico che accompagna il cosiddetto “piacere dei sensi”, consiste nel fatto
che nel secondo caso si cerca un indebolimento della coscienza. Infatti,
alcuni sistemi neuronici implicati, identificati anatomicamente e in base ai
neurotrasmettitori rilasciati, diminuiscono l’entità della reazione a stimoli d’allarme,
e sembra che restringano lo spettro di attività delle reti globali associate al
nucleo dinamico talamocorticale alla base della coscienza. In tale registro fisiologico, si riduce temporaneamente
la percezione di ansia e dolore, ma anche l’efficienza delle facoltà che
consentono di essere pienamente presenti a sé e al mondo circostante.
Il credo evangelico di tradizione apostolica è
una dottrina fondata sulla coscienza, intesa sia in senso neuropsichico
quale stato di consapevolezza vigile, sia in senso morale, quale responsabilità
dell’uomo nei confronti di Dio e del prossimo, e pertanto non è compatibile con
pratiche che indeboliscano la coscienza. Per questo motivo, l’assunzione di sostanze
psicotrope di abuso è inconciliabile con la fede cristiana.
In proposito, mi piace proporre alla riflessione
un fatto evangelico che può avere valore paradigmatico per il credente. I
Romani offrivano ai condannati a morte per crocefissione del vino mirrato, perché
potessero sopportare meglio i dolori strazianti che duravano fino alla morte.
Studi recenti hanno dimostrato la presenza nella mirra di composti ad azione
5-HT-simile, quale quella di composti allucinogeni come la psilocibina, la
mescalina e altri di sintesi. Come è stato dimostrato nella sperimentazione
della psilocibina su volontari affetti da cancro terminale, queste molecole
sono in grado di generare un effetto psicodislettico che, alterando radicalmente
il funzionamento della coscienza, elimina il dolore fisico e morale. Gesù
rifiutò di bere il vino mirrato, conservando l’integrità funzionale del
cervello e della coscienza fino a quando esalò l’ultimo respiro.
La gioia è un affetto espansivo originato
dalla transizione da uno stato psichico di regime ordinario ad uno
caratterizzato da un’intensa produzione di energia, con un’attività che accresce
l’efficienza ideativa, percettiva e psicomotoria, con facilità al sorriso,
propensione al riso ed estroversione. La gioia, promessa da Gesù ai suoi
seguaci, è uno stato psichico positivo caratterizzato da elevata funzionalità della
coscienza, sia per sensibilità di rilevazione che per spettro di segnali riconosciuti.
Il Cristo, dopo aver raccomandato di osservare i comandamenti per rimanere nell’amore
di Dio e prima di dare il comandamento nuovo, ossia amarsi gli uni gli altri
come lui li ha amati[38], dice: “Vi
ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv.
15, 11).
Il credente che abbia presente il testo sacro può
certo aspirare a diventare “amore nell’amore”, tendendo a un valore alto e
assoluto, al possesso della pienezza di un sentimento divino. In questo senso
si può dire che il cristiano preferisce la gioia al piacere.
La differenza tra visione pagana e visione cristiana
si capisce bene in termini di esperienza: gli obiettivi della vita pagana sono
definiti dai giochi del mondo, in uno spettro che va dalla scalata al potere al
semplice ottenimento di una vita tranquilla, sicura e serena; il fine della
vita cristiana è il raggiungimento della perfezione nell’amore secondo l’esortazione
del Maestro: siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli.
Per il pagano, la felicità è la realizzazione di un progetto di vita o la
conseguenza di una circostanza improvvisa, un capriccio degli dei, che va
perciò ricercato.
La felicità esprime un concetto pagano,
che in epoca arcaica non indicava l’idealizzazione di una positività assoluta ma
l’esperienza primordiale di pienezza o soddisfazione dell’uomo davanti alla scena
della moglie con la sua prole, come è stato ricostruito dallo studio della
radice sanscrita fe, fel, che dà luogo a felix e ferax,
attribuiti tanto alla terra generosa di frutti quanto alla donna prolifica, femina,
fetus e le serie di parole derivate da fel, come il latino fellatio
(= poppare il latte), spesso riferite al rapporto di fratria. L’evoluzione
verso il significato attuale è di molto posteriore. I Greci, infatti, avevano in
suo luogo due concetti descrittivi di circostanze: eudaimonía, per indicare
il vivere sotto l’influsso di un «buon demone», e eutychía o «buona
sorte», per definire lo stato prodotto da un evento fortunato, secondo un valore
semantico che lega il binomio felicità/fortuna ad un accadimento improvviso
e sorprendente. Questo filo di significato si rintraccia nella parola tedesca Glück,
che significa appunto fortuna e felicità, e nel termine inglese happiness,
che si traduce felicità ma, come si vede, deriva dal verbo to happen,
che vuol dire accadere. Anche in questo caso, l’etimologia e la storia
dei valori semantici aiutano a comprendere percorsi di esperienza umana: la
felicità, vera o presunta cui si assiste, viene più spesso da un evento
fortunoso.
La beatitudine è l’equivalente cristiano
della felicità, come si comprende bene dalla lettura del Discorso della
Montagna: la felicità non è di questa vita. Ma già in questa vita, se si opera
nella volontà del Padre, si può avere un anticipo della beatitudine, costituito
dalla grazia.
Se invece
si è credenti, allora bisogna tenere ben distinte le interpretazioni e i
compromessi, dei singoli e del secolo, dalle parole della Legge, la cui
validità fu ribadita dal Cristo che tredici secoli dopo Mosè disse che non
sarebbe caduto “nemmeno uno iota” di quella scrittura. Il senso è nel valore
assoluto di un logos, un verbo, una parola-pensiero che è di Dio, non dell’uomo.
Se si crede, o se almeno si riesce ad assumere il punto di vista del credente, non
ha senso giudicare il valore delle prescrizioni sulla base della loro facile
applicabilità, secondo il criterio politico del compromesso democratico. Criterio
di antica tradizione, emblematicamente rappresentato nella risposta che diede
Solone quando gli fu chiesto se avesse dato agli Ateniesi le leggi migliori
possibili, e lui spiegò: “Le migliori che essi potessero rispettare”, ma che non
può applicarsi al codice eterno e assoluto emanato da Dio: la legge morale ricevuta
sul Sinai da Mosè.
Il desiderio nella vita sociale: a
che gioco giochiamo? Grosso
modo, possiamo distinguere nel secolo precedente due epoche: la prima metà,
fino agli anni Sessanta, in cui la vita pubblica seguiva i costumi della
maggioranza cristiana, riflessi nelle leggi che contemplavano il “comune senso
del pudore”, conseguenza del concepire la nudità come esplicito richiamo all’accoppiamento;
e la seconda parte del secolo che, dalla contestazione giovanile del ’68 aveva
visto progressivamente fondersi le istanze giovanili e popolari di libertà sessuale
con le istanze libertine tipiche delle classi agiate in un neopaganesimo de facto,
tuttora vigente. Il programma dichiarato dagli interpreti del pensiero neomarxista
consisteva nell’abbattere la morale borghese[39]; l’obiettivo
dei neoliberali, rappresentati soprattutto dalle associazioni radicali, era di ottenere
come un diritto il riconoscimento pubblico e privato di tutte le manifestazioni
della sessualità.
La distruzione dello stile comportamentale che in
gran parte limitava alla sfera privata la sessualità, soprattutto delle persone
adulte coniugate, è avvenuta e si è consolidata come comportamento generale. In
mancanza di una sostituzione originata da un modello alternativo definito, omogeneo
e coerente, si è prodotta un’omologazione su alcuni tratti caratterizzanti gli
stili di comportamento più che di pensiero, per adesione generalmente non
meditata e ragionata alle mode correnti. Inevitabile lo sviluppo di contraddizioni,
in parte solo apparenti, ma in qualche caso sostanziali. La vita pubblica può essere
descritta come un gioco definito dai ruoli sociali, che consentono di prevedere
e comprendere il comportamento. Tali ruoli sono attraversati spesso in modo
greve da quello di evocatrice o evocatore del desiderio, che oggi sembra
prescindere da quelle forme di etica, deontologia o decoro, che in passato
ispiravano costantemente uno stile e un contegno.
Il gioco tante volte sembra essere questo: io
posso svestirmi a piacimento e impiegare ogni mezzo di attrazione erotica possibile,
da quelli più eleganti e raffinati a quelli più improbabili e pacchiani, tu, se
mi piaci, devi considerare rivolti a te i segnali visivi e soddisfare le mie aspettative;
ma, se non mi piaci, devi assolutamente ignorarli, e se ti azzardi ad avvicinarti
minaccio di denunciarti per molestie sessuali. Forse questa sintesi pecca di
eccesso caricaturale, tuttavia credo che renda efficacemente un aspetto del
problema: si è spostato il giudizio su ciò che è giusto o sbagliato da una
norma morale o legale a un arbitrio individuale. Di più, il potere di questo arbitrio
dipende dalla forza sociale del soggetto che, direttamente o indirettamente,
rimanda al suo potere economico.
C’è un elemento di barbarie in questa ottica
neopagana, ordinariamente scotomizzato dalla mentalità diffusa, che considera
valore prioritario il “diritto al piacere individuale”. Infatti, la
cancellazione dell’adulterio e l’autorizzazione a desiderare sessualmente una
persona che è già coniuge e genitore, produce sofferenza e dissoluzione di
legami affettivi e sociali: la cancellazione del valore della continenza, non
solo arreca danno al prossimo che il cristiano almeno potenzialmente ama, ma
porta al superamento dei limiti della ragione entro cui si costituiscono i
vincoli di responsabilità, al contempo personale e sociale, evidenti nella
reciproca assistenza e nell’educazione dei figli.
L’antropologia ci insegna che nelle comunità
tribali si destinava un periodo dell’anno, generalmente la primavera, a danze
collettive nelle quali i giovani già sottoposti ai riti di passaggio potevano mostrarsi
ed esibirsi per farsi scegliere, come accade tra gli animali durante la cosiddetta
stagione degli amori, ossia la fase estrale, la cui ricorrenza è
rigorosamente regolata da programmi genetici neuroendocrini, che ne definiscono
anche la durata. Presso i Maori e altre tribù che vivono ancora allo stato
arcaico sono stati effettuati reportage video e fotografici, che mostrano il
significato apertamente sessuale di alcune di queste cerimonie, durante le quali
si formano nuove coppie.
La vita animale è strettamente regolata dai cicli
annuali e la ricerca dell’accoppiamento cessa al cessare del periodo fertile.
Nel contesto umano, anche quello più primitivo, come abbiamo visto, esiste una
strutturazione di tempo e luogo, che riflette la più generale e millenaria
organizzazione per epoche della vita.
Desiderare l’altro per completarsi, desiderare di
darsi all’altra persona per completarla, in una parola il desiderio nutrito da quel
miraggio di identificazione che si chiama innamoramento reciproco e porta a
formare una coppia, si rappresenta all’esterno con i tratti dinamici dell’instabilità,
del cambiamento in corso dello stile della persona. Una condizione temporanea e
caratteristica dei giovani, distinta da quegli stati che assumono il profilo
dell’ossessione, così come dal desiderio esclusivamente sessuale. Ciascuno di
questi assetti della mente e della fisiologia dell’organismo nel suo insieme
traspare all’esterno; poi, a seconda dell’osservatore, della sua distanza
affettiva, della sua sensibilità e delle sue aspettative, riceve un giudizio,
in una gamma che va dal mancato rilievo di qualcosa di diverso alla dura
condanna per un comportamento inaccettabile.
Un genitore che desidera, agli occhi dei figli
bambini, è come se uscisse dall’alveo della sua identità, è come se perdesse la
dimensione stabile e definita che lo significa presso di loro e nutre la loro
fiducia, è come se divenisse “altro da sé”. Le reazioni dei bambini a questa
percezione sono diverse e tutt’altro che stereotipate, al contrario di quanto sostenuto
da alcune scuole di psicologia infantile, soprattutto in una realtà in cui si dice
ai bambini che tutto questo è normale. Si insegna ai bambini – secondo quanto i
loro genitori hanno appreso dai modelli mediatici in quel rapporto di ciclica
continuità ed amplificazione espressa dall’adagio del “cinema che riproduce la
vita e della vita che riproduce il cinema” – che è normale che si faccia il
genitore come “seconda attività”, mentre al primo posto vi sia l’impegno serio
e preponderante nel vivere secondo lo stile dell’adolescente in cerca di
emozioni e nuovi partner.
Considerazioni Conclusive. La
filosofia antica, non era lo studio dell’ontologia e della metafisica, come nel
nostro insegnamento accademico, ma era pratica di vita. In questa pratica, i
filosofi erano diventati esperti di reazioni dell’organismo e conoscevano
empiricamente quegli stati psichici di eccitazione affettiva che stravolgono le
priorità esistenziali di una persona, così come quei condizionamenti compulsivi
che oggi chiamiamo addiction o dipendenza, e denominavano collettivamente
passioni queste perdite di misura, ragione, senno, equilibrio. Complessivamente
il mondo classico ha sviluppato grandi modelli di pensiero e stili
antropologici ispirati alla saggia amministrazione di sé, che in buona parte,
attraverso il neoplatonismo rinascimentale, sono stati integrati nella visione
cristiana, costituendo la radice virtuosa della tradizione occidentale. Ma come
nell’antichità vi era Callicle e nell’Ottocento Nietzsche, in ogni epoca vi
sono stati pensatori che hanno sviluppato razionalizzazioni di ogni genere, per
sottrarsi alla saggezza delle regole di continenza e conferire veste sociale
rispettabile alla propria voglia di piacere.
Mi viene in mente l’Economia Libidinale (1974),
l’invenzione di Jean-François Lyotard che descrive la circolazione delle
pulsioni libidiche nei paesi capitalistici in termini economici marxiani per
indurre gli intellettuali di sinistra negli anni Settanta e Ottanta ad entrare
nella dimensione post-industriale e post-moderna, abbandonando le sterili
proteste contro la classe dominante e valorizzando la liberazione delle forze
del desiderio, da usare come strumento di emancipazione[40].
In realtà, tolta la costruzione di facciata, si
ripropone il nicciano uso del desiderio come forza per l’affermazione sociale.
Anche Deleuze e Guattari, i celebri autori de L’Anti-Edipo (1975),
contribuiscono allo sviluppo di tesi volte a condurre le masse di tradizione
marxista-leninista verso un neopaganesimo borghese, proposto in una forma
problematica e dialettica, ma edonistico nella sostanza e giustificato dall’agnosticismo
radicale che adoperava in quegli anni la leva della “libertà sessuale” per
acquisire consenso.
Nei decenni successivi, vari gruppi hanno
proposto come alternativa all’etica codificata cristiana e marxista una morale “à
la carte”, suggerita dall’attualità e dalla libera coscienza dei singoli.
Negli anni recenti, i movimenti che hanno portato
avanti temi come la tutela ambientale nel mondo e la lotta contro le logiche di
profitto della globalizzazione, quasi mai hanno proposto una visione dell’uomo
e dei suoi rapporti di responsabilità all’interno della famiglia umana: vincoli
evidentemente necessari per costruirvi un’etica dell’ambiente. In massima parte
si fa ancora conto sugli edifici un po’ diroccati e in parte disabitati della
morale occidentale che, anche se all’estremo grado di usura, conservano il
ruolo di luogo e supporto della ragione. Non sono pochi, soprattutto fra i
giovani, coloro che hanno eletto a proprio riferimento Papa Francesco.
Tuttavia, la scelta è più quella di un capo politico che non teme i potenti,
sfida le logiche della globalizzazione, chiede la pace, la tutela dell’ambiente,
difende i poveri, i migranti, i deboli, gli ammalati e i bisognosi, senza
distinzioni di alcun tipo. Non è l’adesione convinta al modello di Cristo:
tanti di loro, intervistati, mettono al primo posto la soddisfazione dei propri
desideri, particolarmente quelli sessuali.
La morale a scelta, secondo i comodi e le mode,
rivela una superficialità da “utenti della vita”, che non si rendono conto di
non essere possessori di sé stessi, perché non si conoscono del tutto, e non si
possiede ciò che non si conosce: le parti ignorate di sé sono come vele al
vento della maggioranza; si può essere al timone a capo chino, illudendosi di
condurre la propria barca, perché si ha la possibilità di ruotare un po’ a
destra o un po’a sinistra, ma la direzione è quella del vento.
Il desiderio pone in questione la conoscenza di
sé e il problema di Dio: bisogna affrontarli entrambi e risolverli, altrimenti
si rimane schiavi che si credono padroni.
Per me, in conclusione, la questione è semplice
nella sostanza: da cosa si crede dipende come si desidera. La
rivoluzione, rispetto alla concezione che accomuna il mondo contemporaneo a
quello di pagani e farisei, si legge nelle parole del Vangelo: “Perché chi
vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per
causa mia e del Vangelo, la salverà” (Mc 8, 35). Il cristiano desidera in primo
luogo la vita eterna: la comunione con Dio dopo la morte.
Avrei tante altre cose da scrivere, ad esempio
sul desiderio di bellezza, che ha radici biologiche insospettabili,
addirittura nel valore positivo della luce per il cervello, ma mi fermo qui,
sperando di avere future occasioni per proseguire.
L’autore della
nota invita alla
lettura degli
scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-04 luglio 2020
________________________________________________________________________________
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Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Cfr. Sigmund Freud, L’Interpretazione
dei Sogni (il manoscritto portava la data del 1900 per espressa volontà
dell’autore, anche se stampato nel 1899: doveva inaugurare il nuovo secolo). Bollati
Boringhieri, Torino (varie edizioni dopo il 1948).
[2] Danni notevoli sono stati prodotti
dai divulgatori delle idee di Bruno Bettelheim, che indicava l’educazione autoritaria
quale causa di disturbi pervasivi dello sviluppo come l’autismo, di alterazioni
strutturali cerebrali genetiche o da encefalopatie prenatali e post-natali, all’epoca
definite “psicosi infantili”, millantando la capacità di guarirle con un’educazione
permissiva.
[3] Dichiarò: “Mi rifiuto di credere che
la disonestà dei nostri politici sia da attribuire a un’infanzia priva di
nutella”.
[4] Celebre la frase, ripresa da
generazioni di studiosi, di W. Hoffer: “This double touch is a lesson in
self-discovery”, in Mouth, Hand and Ego-Integration. The Psychoanalytic
Study of the Child 3-4, p. 52 (Edited by Anna Freud, Willie Hoffer and Edward Glover)
London Imago Publishing Company, 1949; v. anche: Maria Grazia Carlini, Paola
Farneti, Il Corpo in Psicologia, p. 70, Libreria Editrice Universitaria
Patron, Padova 1979.
[5] Molti anni fa ho coniato l’espressione
“eteronomia della coscienza”, per indicare uno stadio intermedio fra la
dipendenza e l’autonomia nella consapevolezza di sé.
[6] È ancora fantascienza, ma se fosse
possibile una diacritica oggettiva per distinguere nell’infanzia fra bisogno e
capriccio, i nuovi apparecchi di risonanza magnetica portatili potrebbero
diventare degli utili ausili pedagogici. In realtà, ogni metodo basato su un
criterio anatomico di individuazione topografica ha un preciso limite nel fatto
che solo le funzioni di base sono assicurate da aree e connessioni macroscopiche
sostanzialmente identiche, mentre le funzioni psichiche che richiedono l’intervento
specializzato dei microcircuiti e un’attività sinaptica fine e complessa sono soggette
alle variazioni individuali che rendono diversi anche i cervelli di gemelli
monozigoti e animali clonati.
[7] Cfr. Olds J. et al., in Ramey E. & D’Doherty J. (Eds), Electrical
Stimulation of the Unanesthetized Brain. Hoeber, 1960; per i successivi riferimenti
nel testo, si veda Olds J. et al., Hypothalamic substrates of reward. Physiol
Rev. 42: 554, 1962.
[8] Studi recenti hanno rilevato alcune
basi genetiche e trascrizionali comuni per la vulnerabilità alla dipendenza da
sostanze psicotrope e dall’attività sessuale. La dipendenza sessuale non è
paragonabile a una tossicodipendenza, perché mancano i danni cerebrali diretti
causati dalle sostanze psicotrope di abuso. Le cliniche specializzate nella
disassuefazione sessuale adottano programmi di astinenza e rimodulazione comportamentale
delle priorità esistenziali.
[9] Gli Epicurei, gli Stoici e lo
stesso Seneca conoscevano bene, per esperienza di vita, questo rischio, e anche
se non sapevano che originava da un eccesso di funzionamento a corto circuito di
un sistema a ricompensa in grado di oscurare l’attività neocorticale con le sue
priorità, facevano prevenzione con esercizi di astinenza e misura.
[10] Sembra sia costituito da un FAP
(fixed action pattern) tipico della specie.
[11] Note e Notizie 20-06-20
Motivazione e ricompensa regolate da diversi input GABA.
[12] Si può paragonare all’escalation orgasmica,
che però è un fenomeno straordinario che si sviluppa in un tempo breve ed è
regolato da un feed-back inibitorio, attivato all’acme e in grado di far
cessare tutti i processi fisiologici associati all’eccitazione.
[13] Il mio riferimento principale in
proposito è a La Volontà di Sapere di Michel Foucault, un saggio
pubblicato postumo nel quale si ricostruisce il senso e il valore nella storia
delle pratiche sessuali in rapporto all’individuo e alle istituzioni. Ma ho presente
anche saggi e disamine basati sulle ricerche storiche di Philippe Aries e Georges
Duby su vita privata e costumi sessuali nell’Impero Romano, così come le
riletture dei filosofi greci sulla base dei documenti reperiti dagli storici
diretti da Will Durant per la sua “Storia della Civiltà” e, più in generale, l’opera
di Giovanni Reale sulla filosofia antica.
[14] Salvatore Natoli, L’edificazione
di sé – istruzioni per la vita interiore, p.22, Editori Laterza, Roma-Bari
2010.
[15] Mosè, storicamente citato per aver
condotto il popolo ebraico fuori dall’Egitto nel XIII sec. a.C., è colui che ha
ricevuto da Dio le tavole della Legge secondo l’Ebraismo e il Cristianesimo, ed
è grande profeta per l’Islam. Figura fondamentale in varie altre religioni, fra
cui Baharismo, Rastafarianesimo e Mormonismo. Oltre che nella Torah, di Mosè si
parla nel Midrash, nella biografia scritta da Filone di Alessandria e, all’epoca
di Caligola, nei testi di Giuseppe Tito Flavio.
[16] Epicuro (Samo, 340 a.C. – Atene,
270 a.C.) celebre per il tetrafarmaco che conduce all’atarassia, fu discepolo
dello scettico democriteo Nausifane e fondatore della dottrina detta epicureismo.
La pratica qui citata si diffuse a partire dal IV secolo a.C.
[17] Friedrich Wilhelm Nietzsche nacque a Röken, un piccolo villaggio di poche decine di famiglie, oggi aggregato al comune di Lützen, che aveva come unico pastore protestante il padre del filosofo.
[18] Friedrich Nietzsche, Umano,
troppo umano II, in Opere vol. IV, t. III, p. 159, Adelphi, Milano
1967.
[19] Salvatore Natoli, L’edificazione
di sé – istruzioni sulla vita interiore, p. 23, Editori Laterza, Roma-Bari
2010.
[20] Cfr. Salvatore Natoli, L’edificazione
di sé – istruzioni sulla vita interiore, p. 15, Editori Laterza, Roma-Bari
2010.
[21] Massima Capitale XXIX contenuta anche
nella numero 20 delle Sentenze Vaticane, tratta da Jean Fallot, Il piacere e
la morte nella filosofia di Epicuro, p. 21, Einaudi, Torino 1977.
[22] Massima Capitale XXX, tratta da
Jean Fallot, Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, p. 21; anche
in appendice alla Lettera sulla Felicità, p. 56, BUR Rizzoli, Milano
2005.
[23] Joseph Ratzinger, quale teologo del
pontificato di San Giovanni Paolo II, introdusse questa definizione: “Il
cristianesimo non è una religione, è un fatto: l’incarnazione di Nostro Signore
Gesù Cristo”; definizione adottata durante il suo pontificato e poi più volte
ripresa da Papa Francesco.
[24] Salvatore Natoli, L’edificazione di sé – istruzioni sulla vita interiore, p. 36.
[25] Salvatore Natoli, L’edificazione di sé – istruzioni sulla vita interiore, p. 36.
[26] Non vale più di una suggestione
rilevare che nella cultura germanica di sostrato il valore della vita non era
quello riconosciuto da Greci e Romani. Prima della conquista romana, nei codici
delle popolazioni barbare mitteleuropee i beni materiali dei potenti valevano
molto più della vita di una persona del popolo, e in molti casi l’omicidio non
era punito.
[27] La signoria di sé è presupposto
di civiltà. Il termine, tradotto per lo più con “temperanza”, è stato
analizzato magistralmente nella sua semantica etimologica da Émile Benveniste: Il
vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, p. 253, Einaudi, Torino
1969.
[28] Friedrich Nietzsche, Frammenti
postumi. Novembre 1882 – febbraio 1883, in Opere vol. VII, t. I, p.
194, Adelphi, Milano 1967.
[29] Si capisce la seduzione di
questo pensiero sui ricchi che a ritmo vertiginoso non solo investono ingenti
capitali per soddisfare i propri desideri, ma ne traggono spesso anche grandi
profitti.
[30] Platone, Gorgia, 491d, 10
– 491e, 1.
[31] Platone, Gorgia, 491e, 2.
[32] Platone, Gorgia, 491e, 5 –
492a, 2.
[33] Platone, Gorgia, 494b,
3-4; 6-7.
[34] Cfr. Salvatore Natoli, La
felicità di questa vita, p. 56, Mondadori, Milano 2000.
[35] Mario Perniola, Contro la
comunicazione, p. 40. Einaudi, Torino 2004.
[36] Basti solo pensare al viaggio
documentato dell’apostolo Pietro che, dalle terre di Giudea e Galilea, sbarca
in Italia e la percorre anche a marce forzate fino alla Toscana dove, a Calci,
celebra il rito dell’ultima cena su un rudimentale altare conservato con il
pavimento circostante, a duemila anni di distanza, all’interno dell’abbazia che
vi è sorta intorno.
[37] Dalle feste rituali delle società
tribali ai banchetti delle civiltà del mondo classico si rilevano tracce dell’associazione
fra l’affetto della gioia, dal quale sembra sia originata antropologicamente la
danza, e il piacere testimoniato dall’uso di bevande alcooliche e cibi
prelibati.
[38] Cfr. Gv. 15, 12.
[39] In termini sociopolitici si può
convenire tutti che l’abrogazione del reato penale di adulterio sia stato un
progresso, sia per i credenti cristiani, in quanto Gesù salvò l’adultera dalla
lapidazione (“chi non ha peccato scagli la prima pietra”), sia per atei, agnostici
e seguaci di religioni orientali che considerano lecito quel comportamento. L’evoluzione
del costume, trasversale rispetto all’ideologia dei partiti, è bene rappresentata
nel Terzo Millennio da una dichiarazione televisiva della nipote deputata del
dittatore Benito Mussolini, che rivendicava il diritto di avere sesso come uguale
a quello di avere cibo. Peccato che il sesso non sia in vendita al supermercato
ma appartenga sempre a una persona con una propria volontà, dignità e
concezione della vita e della sessualità!
[40] Non mancarono negli anni Ottanta
e Novanta le banalizzazioni di queste tesi e chi le riportò al vecchio slogan
degli hippies: “Fate l’amore, non fate la guerra!”.